Il 17 gennaio, nella tradizione cristiana, si festeggia sant’Antonio abate noto anche per essere protettore degli animali domestici e patrono dei suinicoltori. Sul sagrato di molte chiese è invalsa l’abitudine di far benedire gli animali, oggi quelli d’affezione mentre un tempo quelli che dalla stalla potevano essere condotti in piazza. Fin dal medioevo sant’Antonio è stato invocato quale protettore nei riguardi del fuoco sacro o fuoco di sant’Antonio complesso di malattie caratterizzato da lesioni cutanee, talvolta di tipo gangrenoso, e forti bruciori che, solo in seguito, si è ipotizzato potessero essere dovute all’ingestione di segale cornuta attraverso il consumo di cereali contaminati. Oggi con fuoco di sant’Antonio si identifica comunemente la malattia provocata dall’herpes zoster. Nell’iconografia religiosa il santo è spesso rappresentato con un maialino ai suoi piedi o in braccio. Sono molte le leggende sulle quali si fonda la tradizione popolare di accompagnare la figura del Santo a quella di un maialetto: dal miracolo operato nei confronti di una nidiata di suinetti nati ciechi e privi degli arti anteriori a quelle dei suinetti incustoditi ed ammalati, ma raccomandati al Santo. Nel primo caso sant’Antonio mosso a compassione segnò con la croce gli animali che subito aprirono gli occhi e videro i loro arti spuntare, mentre nel secondo una madre e la giovane figlia costrette dalla guerra ad abbandonare la loro casa e gli animali al loro ritorno, dopo qualche settimana, li ritrovarono tutti sani e salvi, come se nulla fosse successo.
Certo è che l’Ordine degli Antoniani si dedicava ampiamente all’allevamento dei suini e molti frati si facevano accompagnare da un suinetto durante le questue. L’ordine religioso nacque come ordine ospedaliero che si dedicava anche all’assistenza dei malati di fuoco sacro e nella preparazione degli unguenti, a questi destinati, veniva usato il grasso di maiale. A far tempo dal XII secolo i maiali di proprietà dell’Ordine cominciarono a godere di libertà di pascolo ovunque e potevano anche vagare, indisturbati, per le città ed i villaggi. Unico vincolo che fossero riconoscibili attraverso una campanella legata al collo o all’orecchio. Tale privilegio, ovviamente, generò la comparsa di falsi frati questuanti con intenti tutt’altro che nobili. A parte qualche cinghiale vagante nelle nostre città che però non si rifà al culto del Santo, sant’Antonio oggi viene, come da tradizione, ricordato il 17 gennaio. Quest’anno la ricorrenza cade a ridosso di un accadimento importante dal punto di vista scientifico: qualche giorno fa negli Stati Uniti, per la prima volta, è stato eseguito con successo uno xenotrapianto. Un paziente ha ricevuto il cuore di un maiale geneticamente modificato. Il chirurgo che ha eseguito l’impianto ha dichiarato “in questo momento il cuore funziona, mantiene il battito e la pressione sanguigna, ma non si può dire quanto durerà”.
Ancora una volta la medicina incrocia il suino e chissà cosa avrebbe pensato sant’Antonio di questa realtà. Di certo noi non possiamo che avere fiducia nella Scienza e fede nella Providenza.
Alla GAM di Torino, fino al 20 marzo 2022, è in corso una mostra retrospettiva dedicata a Giovanni Fattori; molte delle opere esposte si rifanno al paesaggio tipico della Maremma toscana e ad alcune delle scene della vita quotidiana dei butteri al lavoro con i loro cavalli e bovini. L’occasione di questa mostra ha riportato alla memoria il dipinto di uno degli allievi del pittore livornese, Ruggero Panerai. A questo allievo si deve un quadro, del 1887, dal titolo “Il cavallo malato”. L’opera, conservata alla GAM di Firenze, ben evidenzia lo stato di malessere dell’animale che, allo stato brado, appare a terra, con le orecchie basse, incurante della vicinanza dei due butteri e del fatto di essere toccato da uno di loro. Dallo sguardo del buttero sembra trasparire una certa preoccupazione.
Si saranno rivolti al veterinario? non è dato saperlo. Sappiamo però che in Toscana al 1° novembre del 1893 esercitavano la professione 242 veterinari, 10 ogni 100.000 abitanti, non molti per la verità ma circa il 10 percento dei 2413 presenti nel regno d’Italia. Molto diffuso come in ogni altra regione era l’empirismo. Fu a Firenze che nel 1892 si tenne il primo congresso della Federazione veterinaria italiana che tra i propri scopi aveva anche quello di contrastare l’empirismo nella cura degli animali.
R. Panerai (1862-1923) “Il cavallo malato” (1887) Galleria d’Arte Moderna Firenze
Il 6 dicembre dello scorso anno ci lasciava la prof.ssa Alba Veggetti, indimenticabile e stimata docente di Anatomia veterinaria dell’Ateneo felsineo. Figura carismatica, seppe coniugare l’attività didattico scientifica con la passione per la Storia della Medicina veterinaria. Fu profonda conoscitrice del trattato del Ruini, pubblicato per la prima volta a Bologna nel 1598, “Dell’Anotomia et dell’infirmità del cavallo” al cui studio si dedicò fin dagli anni giovanili divenendo una della massime conoscitrici di questa pietra miliare della medicina veterinaria. Il prof. Adalberto Merighi, anatomico della Scuola veterinaria torinese, ha voluto onorare la memoria della prof.ssa Veggetti dedicandole un recente articolo “Anatomia del cavallo e Arte: Carlo Ruini” comparso sul volume “E l’Uomo incontrò il cavallo” (https://storiamedicinaveterinaria.com/2021/05/17/cultura-equestre/).
Come Associazione desideriamo, in questo momento, ricordare la prof.ssa Veggetti, per lunghi anni presidente del CISO-Veterinaria, con le due immagini del cavallo miologico, tratte dal Ruini, che adornano l’aula magna del dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie ad Ozzano e che elegantemente sta passeggiando nel dolce paesaggio collinare che tanto richiama l’Appennino alle spalle di Bologna.
Sono trascorsi circa centocinquanta anni da quando Luis Pasteur comunicava al mondo la sua “teoria sui germi”. Allora, come oggi, fu un argomento che divise l’opinione pubblica. Da una parte entusiastici sostenitori e dall’altra scettici detrattori. Nasce in quel momento la moderna microbiologia e da quel momento in poi le scoperte relativamente agli agenti causali delle malattie zoonotiche, o meno, si susseguiranno con impressionante regolarità. Fu necessario del tempo, ma alla scoperta delle cause seguì anche quella dei rimedi. Per la verità, già prima dell’ingresso sulla scena di Pasteur, alcuni passi avanti nell’individuare le cause delle malattie erano già stati fatti. A titolo d’esempio di ricorda la trasmissione sperimentale della morva ad opera di Eric Viborg o del vaiolo ovi-caprino da parte di Girard. Il primo vaccino contro il vaiolo per l’uomo fu messo a punto da Edward Jenner, alla fine del Settecento. Tuttavia sarà solo nella seconda metà dell’Ottocento che, grazie ad una incessante ricerca e a qualche fortunata osservazione casuale si riuscirà ad iniziare una produzione di sieri e vaccini che apriranno nuovi orizzonti alla medicina dell’uomo e degli animali. Non si può in questo contesto non ricordare le scoperte di Emil Behring e Shibasaburo Kitasato che misero a punto i vaccini contro la difterite ed il tetano, impiegando le rispettive tossine inattivate. Ovviamente un ruolo di primo piano spetta anche a Luis Pasteur ed al gruppo di ricercatori che con lui collaborò a lungo. Tra le diverse scoperte che Pasteur conseguì, le più importanti furono certamente quelle del vaccino contro il carbonchio, nel 1881, e contro la rabbia nel 1885. Vale la pena ricordare come queste fondamentali scoperte siano derivate da una osservazione del tutto casuale. Pasteur, che con Émile Roux e Charles Chamberland, stava lavorando ad un rimedio contro il colera dei polli Pasteur si rese conto che «i microbi invecchiati diventano più docili” . Sono gli anni in cui vengono poste le basi scientifiche della microbiologia, le scoperte si susseguiranno ininterrottamente per continuare ancora nel secolo successivo. Anche il Novecento sarà caratterizzato da altri momenti fondamentali nella lotta alle malattie infettive come nel caso della messa a punto del vaccino contro la poliomielite. Alla metà del secolo scorso, Jonas Salk e Albert Sabin ottennero due vaccini contro il virus che periodicamente provocava morti ed invalidità permanente nelle persone che si ammalavano. In particolare il vaccino orale messo a punto da Sabin fu alla base della campagna vaccinale che ebbe inizio nel 1963 e portò all’eradicazione, nei Paesi industrializzati, della malattia. Nell’ambito della medicina veterinaria, il vaccino contro l’afta, l’anemia infettiva del cavallo, del cimurro del cane furono altrettante pietre miliari. Altre sfide sono in corso e altre si apriranno in futuro, ma i “cacciatori di microbi” continuano e continueranno, infaticabili, a dar loro la caccia.
Il 1° dicembre ricorre la festa di Sant’Eligio, patrono dei Maniscalchi e dei Veterinari. La scena della miracolosa ferratura del cavallo è stata, in varie epoche, più volte riprodotta da numerosi artisti per adornare diverse chiese, non solo in Italia. Le prime immagini compaiono fin dalla stesura degli statuti dell’arte dei fabbri. Navigando nel sito della nostra Associazione si possono vedere alcune di queste immagini. Per contro, meno nota è l’attenzione letteraria, nei riguardi de “La leggenda di Sant’Eligio e del cavallo risanato”, alla quale Alexandre Dumas (padre), autore de I tre moschettieri, ha dedicato un intero capitolo, il LXV “Comment Saint Éloi fut guéri de la vanité”, del suo Impressions de voyage, reportage feuilleton apparso a puntate, sulla Revue des deux mondes, nel 1832 e pubblicato in Italia nel 1834, in versione ridotta, con il titolo di In viaggio sulle Alpi. L’autore descrive il momento in cui, proveniente dalla Svizzera in prossimità di Domodossola si imbatté in una processione, tutta italiana, di una corporazione di maniscalchi che stava festeggiando Sant’Eligio. Dumas, che riporta alcune notizie della vita del santo, afferma però di non conoscere l’episodio per il quale i maniscalchi gli sono devoti. Incuriosito chiede notizie al mastro di posta, a cui si era rivolto per un servizio di carrozza da Domodossola a Baveno, e viene così a conoscenza di quanto narra la leggenda.
Eligio, oltre che un orafo, era anche un abilissimo maniscalco tanto bravo che gli bastavano tre “calde” per modellare i ferri. I chiodi che usava per fissarli allo zoccolo sembravano delle pietre preziose incastonate su anelli. Ben presto però l’abilità portò con se la vanità ed Eligio fece montare un’insegna sulla sua bottega che diceva Éloi, maître sur maître, maître sur tous, il maestro dei maestri, il maestro su tutti. La superba affermazione non mancò di suscitare la sensibilità degli altri maniscalchi, sia in Francia che in Europa, tanto che il clamore raggiunse anche il paradiso. Fu così che il buon Dio, girato lo sguardo verso Limoges, vide l’insegna, tanto orgogliosa, e sapendo come l’orgoglio fosse frutto del demonio già stava pensando a quale castigo, l’irrispettoso maniscalco, meritasse. Ma Gesù Cristo, che osservava il padre assorto nei sui pensieri, intervenne a difesa di Eligio: è vero padre, l’insegna è irrispettosa, ma Eligio è veramente abile, solo ha dimenticato che la sua abilità gli viene dal regno dei cieli e comunque, a parte l’orgoglio, è pieno di buoni principi. Gesù Cristo ottenne dal padre il permesso di provare a riportare ad un più umile e rispettoso contegno l’abile maniscalco. Fu così che, sotto mentite spoglie, discese in terra e si presentò alla bottega di Eligio per offrirgli i propri servigi. Che cosa sai fare? domandò il maestro dei maestri, penso di poter forgiare e ferrare altrettanto bene di chiunque altro, fu la risposta. Senza eccezione alcuna? ribatté Eligio. Senza alcun dubbio! disse pronto il “finto” viandante. L’orgoglio cominciava a prendere il sopravvento su Eligio che mostrò a Gesù il ferro che aveva appena terminato e gli chiese: sapresti realizzarne uno così? un bel lavoro, ma penso di poter far meglio rispose l’altro. In quante “calde” pensi di poter forgiare il ferro chiese Eligio, una! fu la pronta risposta. In media ogni maniscalco faceva ricorso a non meno di cinque sei “calde”, mentre ad Eligio, il migliore, ne bastavano tre. Eligio rise, certo che fosse impossibile, prese una verga di ferro e la porse allo sconosciuto che osava sfidarlo. Gesù presi gli attrezzi, pinza e martello, mise la verga nella forgia e con una “calda” realizzò il ferro. Eligio esaminò il ferro senza trovare alcun difetto e non gli rimase altro da fare che mettere alla prova lo sconosciuto con la ferratura. Eligio fece per chiamare gli assistenti perché bloccassero il cavallo, ma lo sconosciuto gli disse che non serviva. Estratto un affilato coltello sollevò l’arto posteriore sinistro e lo tagliò di netto all’altezza del garretto e comodamente ferrò lo zoccolo per poi riattaccarlo e ripetere la medesima procedura sui restanti tre “piedi”. Eligio rimase a dir poco sbalordito e Gesù rincarando la dose gli chiese: ma come, voi non conoscevate questo metodo per ferrare? Si si! ne ho sentito parlare…ma ho sempre preferito l’altro metodo… Eligio, per evitare di avere un tal concorrente, decise di assumerlo a bottega come primo garzone. L’indomani mattina lo inviò fuori città per alcune commissioni. Approfittando della sua assenza, cominciò a studiare attentamente la tecnica che aveva visto mettere in pratica il giorno prima, in attesa della prima occasione per applicarla. Poco dopo si presentò alla sua bottega un cavaliere proveniente dalla Spagna e diretto in Inghilterra, per concludere degli affari con San Dustano, il suo cavallo aveva appena perso un ferro posteriore. Quale miglior occasione per provare la nuova tecnica? In un attimo Eligio amputò il “dito” del cavallo, subito lo ferrò, ma a differenza di quanto aveva fatto Gesù non era più in grado di riattaccare il moncone al cavallo, che stava rapidamente perdendo sangue ed esanime giaceva a terra. Disperato Eligio, pervaso da un gelido sudore, stava per rivolgere il coltello contro se stesso, pur di non sopravvivere a un tale disonore, ma Gesù ricomparve e gli chiese cosa stesse facendo. A mala pena Eligio riuscì ad indicargli il cavallo morente e l’arto ormai freddo. Ah è per questo! esclamò Gesù che, presa in mano la situazione, prontamente poneva rimedio riattaccando l’arto tagliato. Eligio guardò per un istante il suo nuovo garzone e allargando le braccia gli disse: sei tu il maestro ed io il tuo garzone. Felice chi si umilia perché sarà premiato! gli rispose con voce suadente Gesù. Eligio alzato lo sguardo vide che il capo del nuovo garzone era cerchiato da un’aureola e riconobbe all’istante Gesù Cristo, e si inginocchiò dinanzi a lui. A quel punto, Gesù gli disse: bene ti perdono perché ti credo guarito dal tuo orgoglio: rimani maestro dei maestri, ma ricordati che solo io sono maestro di tutti. Detto ciò salì in groppa, dietro al cavaliere, al cavallo risanato e con lui sparì. Il cavaliere, diretto in Inghilterra era san Giorgio! Per chi volesse leggere la versione integrale in francese il link è il seguente http://www.dumaspere.com/pages/bibliotheque/chapitre.php?lid=v8&cid=66
A qualcuno sarà certamente capitato di vedere un film francese di qualche anno fa: “In viaggio con Jacqueline” una brillante e simpatica commedia nella quale il protagonista – un contadino algerino proprietario di una bovina di razza tarina (tarantaise) – decide di far concorrere il suo animale all’esposizione del Salone dell’Agricoltura di Parigi. Il contadino, con la sua Jacqueline, affronterà innumerevoli peripezie, ma alla fine riuscirà ad arrivare alla meta parigina. Gli animali protagonisti dello spettacolo hanno sempre ricevuto dei nomi, più o meno di fantasia, come Rin Tin Tin, Black Beauty o con significati precisi come Furia, Lassie, che nel tempo è divenuto sinonimo di pastore scozzese e che in inglese arcaico significa ragazza, o Babe – piccolo, piccola – ma anche di persone come Jessica o, appunto, Jacqueline. Avere un nome non è una prerogativa esclusiva degli animali del mondo dello spettacolo o di quelli che trascorrono la loro intera esistenza con noi. Un tempo era una necessità anche per i quadrupedi impiegati nell’esercito e all’iniziale del nome corrispondeva l’anno di nascita. I cavalli continuano ad essere chiamati per nome, alcuni molto famosi come Tornese o Varenne o Bucefalo o Marengo per citarne alcuni, altri noti solo al proprietario, ma pur sempre chiamati per nome. Un tempo i contadini non mancavano di dare un nome anche a tutte le vacche presenti nella loro stalla. Oggi questa abitudine nei grandi allevamenti è un po’ meno sentita, sostituita dai moderni sistemi di identificazione elettronica in grado di interagire con computer e robot di mungitura, ma è ancora ben radicata in quelli più piccoli e dediti all’alpeggio. Da un’interessante pubblicazione (M. D’Aveni, Bandiera, Gentila & le altre, Edizioni dell’Orso, 1994) – ricevuta da un socio A.I.S.Me.Ve.M. – si apprende che da un campione di circa 300 allevamenti piemontesi i boonimi, i nomi di bovino, più diffusi erano Steila (Stella) Bandiera e Biunda (Bionda). In tutto i nomi censiti sono stati circa 1700, ma tra questi Jacqueline non è stata trovata, altri tempi. Non mancavano tuttavia i riferimenti al mondo dello spettacolo di allora: Sue-Ellen, ma anche Cabiria!
Il 16 novembre 1883 moriva a Bologna Giovan Battista Ercolani. Il prof. Ercolani ha pieno titolo per essere considerato uno dei padri della veterinaria italiana. Per onorarne la memoria, e mantenerne vivo il ricordo, la Biblioteca, a lui intitolata, del Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Bologna lo ha celebrato con una simpatica iniziativa: metti un Ercolani nel tuo libro
Il 24 novembre del 1896 si spegnava a Torino Felice Cerruti Bauduc (1818-1896), che all’epoca aveva raggiunto una certa notorietà nel mondo della pittura (https://www.treccani.it/enciclopedia/felice-cerruti-beauduc_(Dizionario-Biografico)/). Meno noto il fatto che nel 1837 si fosse laureato in zooiatria quando la Scuola veterinaria aveva sede a Fossano. Con ogni probabilità il Cerruti si era dedicato agli studi veterinari per affinare le sue conoscenze in ambito anatomico e non ci è dato sapere se abbia mai, in qualche frangente, esercitato la professione. Nel 1848, partecipò alla prima Guerra d’Indipendenza, con l’Armata Sarda, quale Ufficiale d’ordinanza di Ferdinando di Savoia, duca di Genova. Secondo quanto scrive Alessandro Volante nel Giornale della R. Società di Veterinaria, numero di novembre del 1896, il Cerruti abbandonò la vita militare, per dedicarsi esclusivamente alla pittura, a seguito di un triste episodio che lo aveva particolarmente impressionato: durante la battaglia di Novara, nel 1849, aveva visto morire tre cavalli colpiti dal fuoco nemico. Tuttavia, non mancò di partecipare anche alla seconda Guerra d’Indipendenza nel 1859 con lo Stato Maggiore dell’Armata Sarda con re Vittorio Emanuele II. Fu pittore soprattutto di “battaglie e fatti d’arme” anche se non mancano altri soggetti quali i cavalli, come nell’opera riprodotta oggi.
F. Cerruti Bauduc, Fiera di animali a Moncalieri (1880). Galleria d’Arte Moderna di Torino.